La possibilità di darci ristoro e incontrarci con i cuori aperti.
Sto leggendo un libro che s’intitola Ogni mattina a Jenin, scritto da Susan Abulhawa. Si svolge in Palestina, una parte poi negli Stati Uniti e poi anche in Libano e poi ancora non so perché devo ancora finirlo. L’arco temporale è quello che va dal 1941 al 2002.
Ma non è del libro in generale che voglio parlare qui.
Sono due pagine che ho letto ieri che voglio trattenere con me un po’, rileggerle con calma, gustarmele e condividerle con te che mi stai leggendo.
Nel primo brano, incontriamo Fatima e Yussef. E’ un momento di intimità di questa coppia il cui amore è nato nel campo profughi di Jenin e ha resistito fino a riuscire finalmente a sbocciare in Libano dove sono in esilio. Sono da poco tempo tempo genitori di una bambina.
La gravidanza, scrive l’autrice, aveva ingrossato il corpo di Fatima e dopo essersi guardata si nascose imbarazzata dietro al cassettone per cambiarsi.
“Be’, mi sto cambiando. Vai”. Si nascose il corpo con la camicia da notte. L’interruttore della luce era troppo lontano. Yussef capì e si mise in ginocchio davanti a lei.
“Fammi vedere” sussurrò all’altezza delle sue ginocchia. Fatima si fermò, tremando come se suo marito la vedesse e la toccasse per la prima volta. Scostò la camicia da notte e lui le appoggiò la testa in grembo. Cominciò a baciare quel corpo che aveva messo al mondo loro figlia, seguendo il contorno delle sue curve, assaporando i segni della maternità su quella donna che aveva vinto il suo cuore, i suoi sogni e i suoi dolori”
Nel secondo pezzo incontriamo un’altra coppia. Si chiamano Amal e Majid e sono fidanzati da poco e forse ancora lui non sa che lei porta addosso i segni del proiettile sparato da un soldato appostato sulla torre di controllo del campo profughi di Jenin che le ha sfregiato l’addome all’età di 12 anni. O forse lo sa, perché qualcuno può averglielo detto. Come lettori e lettrici questo non lo sappiamo ma partecipiamo a questo loro momento di intimità:
“Una volta, un giovedì che eravamo in spiaggia all’ora del tramonto, Majid vide la mia pancia sfregiata. Ci appoggiò una mano, senza curarsi della pelle segnata. Mi accarezzò affettuosamente l’addome, baciandomi le pieghe della cicatrice. Donò al mio corpo l’accettazione che io non ero mai riuscita a dare a me stessa. Quel gesto così dolce spazzò via la vergogna. Una cicatrice d’odio, lenita dai baci di Majid.”
Da un lato delicatezza, cura, amore, ascolto, considerazione.
Dall’altra vulnerabilità e scelta di lasciarsi vedersi e toccare nella propria nudità, nelle proprie trasformazioni e insicurezze. Anche nelle proprie cicatrici, pieghe, dolori.
E carezze e baci che curano e rigenerano, senza necessità di parole.
Come nell’antica arte giapponese del Kintsugi, letteralmente “riparare con l’oro”, usata per riparare oggetti in ceramica saldando insieme i frammenti dell’oggetto con una mistura di lacca e oro in polvere o argento. L’oggetto riparato come ancora più prezioso, per la presenza dell’oro o dell’argento certo, ma sopratutto per la sua unicità.
La possibilità che questi momenti accadano.
Pur in mezzo alla violenza che c’è. Anzi proprio per la violenza che c’è.
Ah, che sollievo, che boccata d’ossigeno, che balsamo per il cuore!
E allora cosa voglio dire con questo piccolo articolo sul blog? Niente di preciso. Forse avevo semplicemente voglia di condividere l’emozione che ho provato leggendo queste pagine e mi sono regalata la possibilità di farlo.