Osservo le superfici ricoperte di neve. Da lontano mi sembra tutto uniforme. Immobile. Forse senza vita. Avvicinandomi poi inizio a vedere sulla neve tracce varie di animali. Percorsi più o meno brevi. Impronte piccole, grandi, che sprofondano o che invece lasciano intatta la superficie dura della neve. Spesso portano al torrente, a quelle poche pozze d’acqua lasciate libere dal ghiaccio. O escono da piccoli buchi, tra una pietra e l’altra, da anfratti che sono stati scelti come tane. Una volta mi è capitato di vedere il musetto di un ermellino che appariva e scompariva. Probabilmente cercava, con tutti i sensi allertati, di cogliere il momento giusto per uscire dal suo rifugio ed andare a procurarsi il cibo per vivere, senza diventare lui stesso cibo per altri.
Mettere il naso fuori dalla propria tana di certo può essere rischioso. E nello stesso tempo il farlo è necessario e vitale. L’ermellino lo sa. Immagino che per gli animali la scelta tra l’uscire allo scoperto o meno non esista e che quindi sia solo questione di aspettare, sorvegliare i movimenti esterni e cogliere il momento in cui sembrano non esserci pericoli all’orizzonte.
Mentre scrivo queste righe, quando alzo lo sguardo dal computer vedo dalla finestra la distesa di neve. Non so come l’ermellino passi il tempo in cui sta nella sua tana. Forse semplicemente dorme e recupera le tante energie spese nel gestire il rischio necessario che corre nell’uscire dalla sua zona di sicurezza. O chissà. Io, quando non esco lasciando le miei impronte numero 39 sulla neve, me ne sto nella mia di tana/casa di montagna, al calduccio, spesso con un buon libro. In questi giorni sto leggendo Prima le donne e i bambini, di Elena Gianini Belotti, l’autrice di Dalla parte delle bambine e recentemente scomparsa.
In questo libro, c’è un racconto che un uomo fa all’autrice incontrata per caso in treno. L’uomo esprime tutta la sua disperazione nel rendersi conto di aver attraversato la vita senza permettersi di provare, esprimere, condividere emozioni perché dopotutto “ero un ingegnere, avevo responsabilità pesanti, tutto gravava sulle mie spalle, quelle erano le cose importanti, l’agenda degli appuntamenti, i consigli di amministrazione. Il resto era un lusso, i sentimenti erano raffinatezze per gente che aveva tempo da perdere.” E si accorge di non sapere più parlare, anzi di non averlo mai fatto se non per comunicare cose pratiche, quotidiane, indispensabili. Tutto sottinteso, tutto dato per scontato. Dialoghi prevedibili, silenzi, i non detti in cui si celano i conflitti. Con i propri genitori, con i compagni di scuola, con i colleghi, con le figlie, con la moglie con cui “scambiavamo rade parole, sempre quelle: com’è andata la giornata, cosa hai fatto, tutto generico, tutto cauto, come per timore di dire di più”. Scrive l’autrice: “Non gli era mai stato permesso di impietosirsi su se stesso e gli era impossibile impietosirsi sugli altri. Non era mai stato amato e non sapeva come si fa. Sapeva soltanto qual era il suo dovere verso quelli di cui aveva preso la responsabilità, ma era il piacere che si era negato. Il suo corpo, la sua lingua, la sua bocca erano sigillati dalla paura atroce di dover sperimentare il rifiuto, di essere respinto. Non vedo, non sento, non voglio, non desidero, non ci sono e allora non corro più nessun rischio.”
Alla fine di questa storia, l’autrice scrive queste righe che riporto sotto e che mi fanno pensare a molte cose rispetto al mio modo di comunicare, a quello di noi esseri umani, a come talvolta le parole fanno fatica ad uscire e quando lo fanno sono guardinghe e sul piede di guerra e a quanto tutto questo sia doloroso. E penso anche all’ermellino che ha la tana nel muretto di fronte a casa mia e che forse è più libero di noi nel non avere scelta e nel non poter evitare di avventurarsi fuori affrontando il rischio che ci sia la volpe nei paraggi per esempio, o addirittura il lupo, perché ne va del suo esistere. E lui sa bene di cosa ha necessità per vivere.
“L’impossibilità di capirsi corre sul filo della comunicazione. Tra uomo e donna, tra adulti e bambini, tra bambini. La disparità del potere distorce la comunicazione, obbliga a sorvegliare quello che si dice, a stare in guardia, uccide la fiducia e l’amicizia. Le parole non sono usate per dire, per esprimere, per raccontarsi, servono per nascondere, eludere, difendersi, hanno un significato esplicito che raramente corrisponde a quello autentico.
È come se le parole usuali, quotidiane, uscissero per esplorare, per tastare il terreno e orientarsi, caute e neutre, in attesa del momento in cui sarà possibile uscire allo scoperto e non parlare più di cose, di avvenimenti, di fatti, ma di emozioni, di sentimenti, di stati d’animo. Di se stessi. Momento che può non presentarsi mai per vite intere, sempre atteso come un miracolo e sempre scavallato, negato, contraddetto da altre parole senza vita e senza amore che finiscono per essere le sole a poter essere pronunciate.”
Le nostre parole guardinghe, che difendono territori, che fissano confini, che invece di svelarci, ci nascondono e che invece di avvicinarci, ci allontanano. Parole piatte e di corto respiro in luogo di parole che vorremmo sentire e vorremmo pronunciare. E che possono rimanere chiuse nella tana per sempre e mai mostrarci nella nostra autenticità.
E allora è questo l’augurio che voglio fare per il nuovo anno che verrà: che ognuno e ognuna di noi possa trovare le proprie parole per dire di se, delle proprie emozioni e dei propri stati d’animo. Dei desideri e delle aspirazioni. Della vita e dell’amore che scorre. Della gratitudine che si prova. E che queste parole possano uscire dalle nostre tane, disarmate e disarmanti, paritarie e mostrarsi con chiarezza e in tutta la pienezza della nostra vulnerabilità.
Parole che nutrano la nostra umanità e siano cibo per il nostro vivere.
E che possano trovare orecchie aperte e sensibili in cui risuonare. Tra empatia, accoglienza, tenerezza, reciprocità.
E di parola in parola e di orecchio in orecchio, che la vita possa uscire alla luce e fiorire!